Ci vogliono quattro ore. Quattro lunghissime ore di trucco sapiente e un lussuoso costume per trasformare Yang Feng Yi in una seducente concubina. Grazie a lei, l’opera tradizionale cinese Kunqu è arrivata in Italia: nata 600 anni fa e riconosciuta come bene artistico mondiale dall’Onu, questa antichissima arte richiede a chi la interpreta di essere contemporaneamente cantante, ballerino, mimo, esperto di arti marziali e illusionista.
Anche Yang Feng Yi è capace di creare l’illusione della realtà; il suo gioco fa comprendere al pubblico dove e quando si svolge l’azione e può evocare montagne, corsi d’acqua, battelli, giardini. Insomma, qualsiasi luogo necessario alla comprensione del testo. Ma, per arrivare a questo, ha studiato molte ore al giorno fin da quando era bambina. Oggi si esibisce praticamente sette giorni su sette davanti a 2300 persone in un teatro sempre pieno, visto che i cinesi attraverso il teatro Kunqu hanno ritrovato le loro radici.
E non solo: oltre a essere una famosa cantante lirica e un’apprezzata interprete cinematografica, Yang Feng Yi è la prima donna a ricoprire la carica di direttore del Teatro dell’Opera di Pechino (nella foto). Per questo ha ricevuto il Premio Firenze Donna 2006 in Italia, ma anche il Mei Hua (il più importante riconoscimento per un artista) e il Premio dello Stato come migliore attrice nel suo Paese.
Da Pechino a Roma... Com’è arrivata?
«Il merito va alla sinologa Maria Beatrice Castronovo Pocek, che ha vissuto a lungo in Cina: nel 1992 mi ha chiesto di esibirmi al Teatro Argentina di Roma nella Turandot di Carlo Gozzi e altre favole del repertorio classico. Poi siamo partite con una tournée in tutta Italia; il successo è stato grande e sono arrivate altre occasioni per tornare».
Lei è figlia d’arte, ma la storia della sua famiglia (come quella di tutti i cinesi) è stata stravolta dall’avvento di Mao...
«Mio padre era un attore nata a Qin Dao, una città sul mare famosa per la birra, perché colonizzata per tanti anni dai tedeschi. Ma sotto il maoismo dovette smettere di fare l’attore: in quel periodo furono vietate le rappresentazioni».
Vuol dire che, negli anni ‘50, per ragioni politiche il repertorio dell’Opera di Pechino scomparve dalla scena cinese?
«Esattamente. C’era spazio solo per il teatro moderno, pieno di messaggi comunisti... Fu un vero dolore, per lui. Così decise, non appena fu possibile, di mandare me e la mia sorella gemella, che all’epoca avevamo poco più di dieci anni, a frequentare la scuola di teatro di Pechino».
Che anno era?
«Il 1973: ma solo dall’ottobre 1976 fu possibile ammirare nuovamente tutta la ricchezza di queste opere classiche».
Con quale accoglienza da parte del pubblico?
«Il riapparire sulla scena delle commedie tradizionali ha segnato per l’Opera di Pechino lo sbocciare di una seconda primavera. Il pubblico, letteralmente entusiasta, affolla il teatro, che registra il tutto esaurito ogni sera, nonostante i 2300 posti».
L’incarico di direttore, il successo anche in Giappone e negli Stati Uniti. Ora il premio in Italia. Soddisfatta?
«Sono felice per tutti i grandi cambiamenti che si sono verificati nel corso degli anni».
Ad esempio?
«Il ruolo dan, o femminile, è stato interpretato solo da attori maschili dal 1777 in poi, da quando, cioè, l’imperatore mancese Qianlong proibì alle donne, per ragioni di moralità, di calcare le scene. È solo dal 1911, con l’avvento della Repubblica, che le donne sono ritornate a recitare sulle scene dell’Opera di Pechino accanto agli uomini; e, come dicono i cinesi, ‘le donne si trovano ora a dover imitare gli uomini che hanno imitato le donne’. Poi il maoismo, che aveva decretato la fine dell’Opera... E, infine, la sua riscoperta in Cina e nel mondo...».
Gli spettatori occidentali come reagiscono ai suoi spettacoli?
«Se la lingua può suonare strana (è pressoché incomprensibile anche per i miei concittadini...), non è difficile scoprire e apprezzare il fascino di uno stile musicale inconfondibile. Del resto, nel caso dell’Orchestra dell’Opera di Pechino, non si tratta di semplici esecutori, ma di veri e propri musicisti».
Un consiglio?
«Lasciarsi trasportare sulle ali della fantasia in un mondo magico, può essere una vera scoperta».
Anche Yang Feng Yi è capace di creare l’illusione della realtà; il suo gioco fa comprendere al pubblico dove e quando si svolge l’azione e può evocare montagne, corsi d’acqua, battelli, giardini. Insomma, qualsiasi luogo necessario alla comprensione del testo. Ma, per arrivare a questo, ha studiato molte ore al giorno fin da quando era bambina. Oggi si esibisce praticamente sette giorni su sette davanti a 2300 persone in un teatro sempre pieno, visto che i cinesi attraverso il teatro Kunqu hanno ritrovato le loro radici.
E non solo: oltre a essere una famosa cantante lirica e un’apprezzata interprete cinematografica, Yang Feng Yi è la prima donna a ricoprire la carica di direttore del Teatro dell’Opera di Pechino (nella foto). Per questo ha ricevuto il Premio Firenze Donna 2006 in Italia, ma anche il Mei Hua (il più importante riconoscimento per un artista) e il Premio dello Stato come migliore attrice nel suo Paese.
Da Pechino a Roma... Com’è arrivata?
«Il merito va alla sinologa Maria Beatrice Castronovo Pocek, che ha vissuto a lungo in Cina: nel 1992 mi ha chiesto di esibirmi al Teatro Argentina di Roma nella Turandot di Carlo Gozzi e altre favole del repertorio classico. Poi siamo partite con una tournée in tutta Italia; il successo è stato grande e sono arrivate altre occasioni per tornare».
Lei è figlia d’arte, ma la storia della sua famiglia (come quella di tutti i cinesi) è stata stravolta dall’avvento di Mao...
«Mio padre era un attore nata a Qin Dao, una città sul mare famosa per la birra, perché colonizzata per tanti anni dai tedeschi. Ma sotto il maoismo dovette smettere di fare l’attore: in quel periodo furono vietate le rappresentazioni».
Vuol dire che, negli anni ‘50, per ragioni politiche il repertorio dell’Opera di Pechino scomparve dalla scena cinese?
«Esattamente. C’era spazio solo per il teatro moderno, pieno di messaggi comunisti... Fu un vero dolore, per lui. Così decise, non appena fu possibile, di mandare me e la mia sorella gemella, che all’epoca avevamo poco più di dieci anni, a frequentare la scuola di teatro di Pechino».
Che anno era?
«Il 1973: ma solo dall’ottobre 1976 fu possibile ammirare nuovamente tutta la ricchezza di queste opere classiche».
Con quale accoglienza da parte del pubblico?
«Il riapparire sulla scena delle commedie tradizionali ha segnato per l’Opera di Pechino lo sbocciare di una seconda primavera. Il pubblico, letteralmente entusiasta, affolla il teatro, che registra il tutto esaurito ogni sera, nonostante i 2300 posti».
L’incarico di direttore, il successo anche in Giappone e negli Stati Uniti. Ora il premio in Italia. Soddisfatta?
«Sono felice per tutti i grandi cambiamenti che si sono verificati nel corso degli anni».
Ad esempio?
«Il ruolo dan, o femminile, è stato interpretato solo da attori maschili dal 1777 in poi, da quando, cioè, l’imperatore mancese Qianlong proibì alle donne, per ragioni di moralità, di calcare le scene. È solo dal 1911, con l’avvento della Repubblica, che le donne sono ritornate a recitare sulle scene dell’Opera di Pechino accanto agli uomini; e, come dicono i cinesi, ‘le donne si trovano ora a dover imitare gli uomini che hanno imitato le donne’. Poi il maoismo, che aveva decretato la fine dell’Opera... E, infine, la sua riscoperta in Cina e nel mondo...».
Gli spettatori occidentali come reagiscono ai suoi spettacoli?
«Se la lingua può suonare strana (è pressoché incomprensibile anche per i miei concittadini...), non è difficile scoprire e apprezzare il fascino di uno stile musicale inconfondibile. Del resto, nel caso dell’Orchestra dell’Opera di Pechino, non si tratta di semplici esecutori, ma di veri e propri musicisti».
Un consiglio?
«Lasciarsi trasportare sulle ali della fantasia in un mondo magico, può essere una vera scoperta».